mercoledì 4 maggio 2011

Bum bum "derivati"!

L'attenzione dei media è ormai completamente rivolta al caso Bin Laden.Il terrorismo è già pronto a riprendersi il ruolo di spauracchio mondiale,mentre una guerra fresca fresca è già in corso;e forse qualche altra è in fase di pianificazione.

Intanto sembra che ci si sia dimenticati di un problema che tocca direttamente le nostre vite.Un problema che ha molte più probabilità di rovinarcele di un fantomatico pseudo terrorista nascosto chissà dove;piuttosto che la presa della democrazia in qualche sperduta landa sahariana.
Parliamo ovviamente della salute dell'economia globale.Parliamo dello stato dell'arte dei conti degli stati.E soprattutto di quello che avviene nelle Borse,i luoghi dove i destini delle economie vengono giocati come su un tavolo verde.



 “Un mercato fuori controllo da 360mila miliardi di euro. Un rischio di credito stimato in 750 miliardi di euro, pari alla somma del default di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna”. Volumi e cifre che da dodici mesi in qua invece di ridimensionarsi sono persino in crescita. Non è l’attacco di un pezzo pre-crisi, un reperto delle cronache prima del 2008, ma è la fotografia dell’attuale situazione economica e finanziaria mondiale che traccia il Sole 24 Ore. Insomma è pronta, potenzialmente pronta la grande crisi bis, il bis della grande crisi: niente e nessuno è in grado di controllare i “derivati”, una massa enorme di denaro elettronico che si agita e si muove nella “stiva” della nave-pianeta e che, ad un’onda più alta delle altre, può sfondarne le paratie e mandarla a fondo. 

Derivati sono quegli strumenti finanziari che “derivano” il loro valore da tassi, cambi, debiti, prestiti, materie prime, metalli, azioni, indici e dai derivati stessi. Sono “assicurazioni” su scala planetaria. Assicurazioni che sono trasformate in scommesse d’azzardo, soprattutto gli “over the counter”, i fuori Borsa, “immateriale” denaro che può materialmente esplodere perchè ci sono, contano ma nessuno sa davvero quanto valgono. 

Tre anni fa, mese più mese meno, con lo scoppio di quella che era definita “la bolla immobiliare americana”, iniziò la più grave crisi economica mondiale del dopoguerra. Una crisi che si propagò da un mercato all’altro rivelando la fragilità di un sistema e svelando molte delle storture che quel sistema conteneva. Da allora il peggio sembra passato, anche se molti economisti affermano ancora che la crisi non è alle spalle.


 Ma la crisi ha portato con sè anche del buono. Sbagliando s’impara. Si disse che i mercati andavano regolati in modo diverso e più rigido, si disse che non si poteva permettere agli speculatori e alle speculazioni di muovere cifre di denaro abnormi e si disse che i bonus milionari che i grandi manager percepivano erano una mostruosità sociale e non solo quando quei bonus venivano corrisposti anche da aziende prossime al fallimento che significava grandi, in alcuni casi enormi, perdite economiche per le famiglie e i piccoli risparmiatori. La crisi non è ancora alle spalle, e forse nemmeno il peggio è passato se è vero, come lo è, che dopo due anni l’indice Standard & Poor’s a Wall Street è a livelli superiori a quelli di prima del collasso di Lehman, i bonus bancari hanno raggiunto i livelli record pre-Lehman e il volume dei derivati si avvicina a quello pre-crisi. Due anni e una crisi, la peggiore a memoria d’uomo, sembrano non aver insegnato nulla. 


Swap, derivati e simili, genitori della crisi del 2009, continuano a far la parte del leone nei mercati e sono persino in aumento, tanto che rappresentano un mercato fuori controllo da 360mila miliardi di euro. 
È questo il valore nozionale degli swap secondo le ultime statistiche internazionali. Nel complesso, per i derivati fuoriborsa, strumenti negoziati fuori da piattaforme e circuiti regolamentati, si sfiorano 500mila miliardi. L’Isda, associazione mondiale degli operatori in derivati otc, stima che il rischio di credito di questi contratti sia pari a 2.430 miliardi di euro. Se il mercato degli swap è immenso e senza controllo, i derivati rappresentano un possibile rischio anche per le grandi banche europee che non differiscono nelle pratiche dai colossi Usa. Ammontano infatti a 4mila miliardi di euro i derivati nei bilanci degli istituti del vecchio continente, un valore pari al 20% degli attivi. E già il nome desta sospetto: lo strumento derivato letteralmente “deriva” prezzo e valore da tassi d’interesse e di cambio, debiti e prestiti, materie prime e metalli preziosi, azioni, indici e persino altri derivati. Le perplessità aumentano poi quando il derivato viene scambiato over-the-counter (otc) cioè fuoriborsa, negoziato fuori da piattaforme e circuiti regolamentati. I derivati con targhetta otc, principalmente gli swap, mancano di quotazioni ufficiali e prezzi trasparenti, non sono garantiti dalla cassa di compensazione con versamento di margini giornalieri, a fronte delle perdite anche potenziali per annullare il rischio controparte. Al giugno 2010 – ultima statistica Bri – i derivati fuoriborsa avevano un valore nozionale (entità delle passività o attività sottostanti) di poco inferiore a 600.000 miliardi di dollari, di cui circa 440.000 in swap. L’Isda, l’associazione mondiale degli operatori in derivati otc, stima che dopo il netting (compensazione delle posizioni tra due controparti) il rischio di credito di questi contratti è pari a 3.600 miliardi di dollari, 2.430 miliardi di euro. Tenuto conto che il 70% dei derivati fuoriborsa tra istituzioni finanziarie è garantito da attivi collaterali, il rischio di credito di swap e affini è quantificato in 1.100 miliardi di dollari, circa 750 miliardi di euro: pari alla somma del default di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna messi insieme. Una montagna di denaro.
Negli ultimi 12 mesi, intanto, i volumi sono tornati a salire a ritmi sostenuti. Una dimensione monstre che, proprio a causa dell’opacità e natura sfuggente dei derivati, preoccupa autorità di controllo e governi in tutto il mondo: swap e derivati otc sono visti come fonte di rischio sistemico e quindi destinatari di una “rivoluzione regolamentare”. Gli Usa, i primi a scottarsi due anni fa, ci hanno già provato: la legge Dodd-Frank approvata dal Congresso americano impone l’obbligo di spostare la contrattazione dei derivati “standard” in mercati regolamentati, con l’uso di margini adeguati. A questa norma però, non si è ancora data attuazione, perché le banche che operano su questi mercati guadagnano 19,4 miliardi di dollari l’anno in queste transazioni. Frenano perché sanno di profittare dall’opacità del mercato interbancario e non vogliono perdere questi profitti e i bonus ad essi collegati.
Due anni, ventiquattro mesi e moltissime parole sono passate. In questo breve lasso di tempo economie, quelle delle grandi nazioni come quelle delle piccole famiglie, sono state sconvolte e in alcuni casi distrutte. Centinaia di migliaia di americani si sono trovati nella condizione di non essere più in grado di onorare i loro debiti, milioni di persone in tutto il mondo hanno perso il lavoro e i ministri dell’economia delle nazioni più industrializzate in particolare hanno dovuto varare manovre economiche molto pesanti. La crisi in questi due anni ha riempito giornali e telegiornali, conversazioni al bar e dibattiti televisivi, aule parlamentari e direzioni di banche ma, nonostante tutto questo parlare e tutto questo spazio oggi, due anni dopo, pochi numeri rischiano di vanificare tutte quelle parole. 

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