mercoledì 30 ottobre 2013

Privatizzazioni: oltre il danno, la beffa...

Ci risiamo. Il debito pubblico continua a salire senza soste e, come sempre, torna in auge il refrain delle privatizzazioni come soluzione per tamponare l'emorragia.
Il Governo pare fare sul serio: il piano di privatizzazioni vedrà presto la luce e a finire sul mercato non saranno solo immobili, ma anche rami di aziende possedute o le partecipazioni detenute in società quotate. 
Lo ha confermato il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, che ha fatto anche il nome della Rai.
Ma ci sono, soprattutto, anche quelli di Eni, Terna, Snam, Enel e Finmeccanica che sono aziende di cosiddetto interesse strategico per il Paese. 

L’iniziativa garantirebbe circa 20 miliardi di euro in tre anni da usare per abbattere il debito; che, attualmente, è di 2.075 miliardi di euro. 
Un pò come dire: sono alla canna del gas, ho un debito di 2.075 euro e penso di alleggerire la mia situazione risparmiando una decina di caffè all'anno, per 3 anni...


Ma di cosa stiamo parlando?

Tanto per cominciare, è evidente che alcune di queste aziende sono di valore strategico per l’interesse nazionale. Inoltre stiamo parlando di alcune tra le poche aziende che ancora producono grandi profitti che, se restano in Italia, vengono reinvestiti in Italia; se finiscono all’estero, evidentemente saranno reinvestiti all’estero. 

Come se non bastasse, il rendimento delle partecipazioni in mano allo Stato è, generalmente, superiore al costo medio del debito pubblico; quest’ultimo, quindi, tramite il piano del governo, sarebbe abbattuto in misura decisamente inferiore rispetto alla redditività di tali aziende.
Semplificando il concetto, una volta erosi pochissimi miliardi di debito, il debito pubblico continuerebbe subito dopo ad aumentare, neutralizzando immediatamente l’operazione. Non vi è ragione, quindi, per cui lo Stato dovrebbe privarsene. 

Alle considerazioni strettamente economiche, si aggiungono quelle legate alla sicurezza nazionale.
L’Italia ha una fortissima dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento energetico. Il solo sospetto che in futuro le aziende del settore possano diventare proprietà di chi ha interessi nazionali diversi, se non addirittura in conflitto con i nostri, non è evidentemente accettabile. 

Bisogna tenere conto del fatto che il valore dell’Eni, in particolare, eccede di gran lunga la sua dimensione economica: da sempre, infatti, svolge una funzione diplomatica di primaria importanza in tutte le aree in cui opera (molte delle quali sono zone di conflitto), non di rado suppletiva e ben più capillare di quella svolta dal ministero degli Esteri, accreditando l’Italia a livello internazionale e potenziando la capacità del nostro Paese di intessere rapporti politici e commerciali.

Eppure ci viene ripetutamente detto, a mo' di lavaggio del cervello, che dobbiamo uscire dalla nostra visione "provinciale", e che ogni grande Nazione costruisce ponti d'oro ai capitali stranieri che vogliono entrare.

La verità invece è che nessuno al mondo si sognerebbe di disfarsi di un gioiello come, per esempio, Finmeccanica. Di sicuro non i francesi, i tedeschi o gli americani, decisamente attivi in questo settore, nonché, attualmente, nostri competitor; tutti costoro, peraltro, si guarderebbero bene dal svendere le proprie partecipazioni a privati che, spesso, privati non sono, bensì soggetti riconducibili a fondi sovrani stranieri.

Non ha quindi nessun senso questa spinta a privatizzare in maniera indiscriminata. Tanto più che molti paesi europei continuano ad avere partecipazioni in molte aziende.
I tedeschi, ad esempio, in deroga alle norme europee hanno nazionalizzato più di 90 istituti di credito e società finanziarie. Noi non abbiamo più una sola banca nazionale.

Ma poi, ci fosse stato almeno un esempio di privatizzazione in Italia che abbia prodotto buoni risultati...
Comunque sia, pensare di abbattere il debito svendendo quel poco di buono che rimasto è roba da incompetenti, o criminali...

Per migliorare la situazione bisogna abbandonare il modello che la Germania ha imposto all'Europa: un modello economico secondo cui il presupposto della crescita è la riduzione del deficit.
Ma si tratta di un modello che altrove non esiste. E che, in Italia si è praticato esclusivamente attraverso l’aggravio della fiscalità e il taglio della spesa (senza mai essere riusciti a razionalizzarla).

La logica conseguenza di questa bomba di tasse sulla nostra economia, è stata la riduzione delle base imponibile, vista la morìa di aziende e posti di lavoro generata. Ovvio quindi che il risultato finale sia stato il peggioramento della crisi.

Si dirà, come mai una cosa così semplice non viene compresa da chi ha in mano il Governo?
Non è che non lo comprendono; è che quando Letta andrà al prossimo Bilderberg meeting, poi che gli dice ai capitali stranieri...?

Stay tuned


2 commenti:

  1. Per migliorare la situazione bisogna abbandonare il modello che la Germania ha imposto all'Europa: un modello economico secondo cui il presupposto della crescita è la riduzione del deficit. "

    vuoi dire che l'Italia non ha firmato quei vincoli del 3% e del deficit/Pil al 60%? Cioè la Germania si alza una mattina ed impone ste regole a ben 17 paesi dell'eurozona? Prendiamocele le nostre responsabilità ogni tanto

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  2. Barbara, quelle condizioni sono state sottoscritte da una classe politica che non aveva la minima idea di a cosa si andava incontro.
    Ed in ogni caso, nel momento in cui il sistema di Maastricht si dimostra mortifero per l'economia italiana, è un preciso dovere di chi governa anteporre gli interessi dei cittadini a quelli di un Trattato.

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